Mio figlio potrebbe diventare un assassino
“Se domani sono io,
se domani non torno,
mamma, distruggi tutto.
Se domani tocca a me,
voglio essere l’ultima”.
Dopo il ritrovamento del cadavere di Giulia Cecchettin – la ventiduenne che qualche giorno fa avrebbe dovuto laurearsi e che invece è stata uccisa dall’ex fidanzato e abbandonata nei pressi del lago di Barcis – stanno facendo il giro del web le parole dell’attivista peruviana Cristina Torres Cáceres.
“Se domani sono io […] se domani tocca a me […]”.
Parole che fanno venire i brividi a tutte perché tutte lo sappiamo, in fondo, che potevamo essere Giulia e che potremmo essere Giulia domani, che tanto toccherà davvero a un’altra, una che adesso non lo sa, che forse è in giro con le amiche, che sta cullando il suo bambino, oppure sta studiando, che magari è a lavoro, o che ignara di tutto ci ha appena fatto l’amore con quello che diventerà il suo aguzzino.
In Italia viene uccisa una donna ogni 3 giorni. Una ogni 15 minuti subisce violenza. Giulia è stata l’83esima vittima di femminicidio dall’inizio del 2023. Ma in questa narrazione non manca forse qualcosa?
Perché se in Italia ogni 3 giorni una donna viene uccisa, allora ogni 3 giorni un uomo uccide. Se ogni 15 minuti c’è una donna che subisce violenza, significa che ogni 15 minuti c’è un uomo che diventa violento. Se Giulia è l’83esima vittima di femminicidio dall’inizio dell’anno, allora dobbiamo contare 83 uomini che da gennaio 2023 ad oggi si sono rivelati assassini. E no, non erano mostri, nella maggioranza dei casi le indagini hanno dimostrato che non avevano problemi psichici e non hanno nemmeno agito in preda a raptus incontrollabili. La definizione di “bravo ragazzo”, che tanto ci ha indignato quando l’abbiamo sentita attribuita a Filippo Turetta, l’ex fidanzato di Giulia accusato di averla uccisa, ci dice in realtà una cosa inquietante con cui però dovremmo forse fare i conti: non li stiamo educando bene quanto credevamo i nostri “bravi ragazzi”. Preoccupati come siamo all’idea di avere una figlia maltrattata, violentata, uccisa, diamo forse troppo per scontato che nostro figlio non maltratti, non violenti, non uccida. Che lui no, lui è un bravo ragazzo.
La verità è che è infinitamente più semplice convincerci che basti educare le ragazze a non provocare, a vestirsi in modo morigerato, non ubriacarsi e non andare all’ultimo appuntamento anziché ammettere che tanto non basterebbe, che non salveremmo nessuna, che sono i nostri bravi i ragazzi quelli da rieducare.
Ho trent’anni e in questi giorni ho pensato che, se mai dovessi avere un figlio maschio, dovrei fare l’enorme sforzo di dire a me stessa che anche lui potrebbe diventare un violento, uno stupratore, o peggio un assassino. Non perché tutti gli uomini siano violenti, stupratori o assassini, ma perché se troppi uomini sono violenti, stupratori o assassini, allora è innegabile che esista un problema di fondo, una questione culturale di cui tutti siamo responsabili e di cui tutti potremmo diventare vittime, da una parte o dall’altra del coltello.
In fondo i femminicidi che negli ultimi anni sempre più spesso affollano le pagine dei giornali hanno in genere tutti una matrice comune: c’è un uomo convinto che una donna gli appartenga. Un uomo che ne è così convinto da non accettare un no e arrogarsi il diritto di decidere se quella donna possa o meno continuare a vivere.
Potere e possesso sono i sintomi ricorrenti, ma non c’è bisogno di scomodare i cadaveri di quelle 83 donne uccise dall’inizio dell’anno per ritrovarli. Basta guardare a tutte quelle relazioni fondate sulla disparità e il controllo. Quelle in cui lui è convinto di avere voce in capitolo su come lei si debba vestire, su quali amici possa frequentare, con chi debba parlare, se e quando possa uscire. O ancora, basta guardare ai commenti sessisti che si fanno tra amici, ai fischi non desiderati, alle palpate casuali nei luoghi affollati. Tutti comportamenti così diffusi che quasi non ci scandalizzano più. “È solo un po’ insicuro”. “Quello era un complimento”. “Lui in fondo è un bravo ragazzo”. Tutti comportamenti che, invece, denotano l’esistenza di un sistema malato che inconsciamente avalliamo ogni volta che li tolleriamo, sia che siano rivolti a noi sia che abbiano ad oggetto un’altra donna, sia che ad averli sia uno sconosciuto che il nostro compagno, un nostro amico, nostro figlio. Un sistema che contribuiamo a fomentare quando per assurdo stigmatizziamo chi non si adegua, gli uomini che non “fanno gli uomini”, secondo criteri che dovrebbero invece farci venire la pelle d’oca.
Ho trent’anni e ho capito che, se mai dovessi avere un figlio maschio, dovrò vivere con la consapevolezza che potrebbe diventare un assassino. Perché se nel frattempo nulla sarà cambiato crescerà in un Paese dalla cultura profondamente patriarcale, frequenterà una scuola dove nessun insegnante gli parlerà di educazione affettiva e sessuale, imparerà il sesso dai porno e si convincerà che una donna gode solo se le fai male. A mio figlio, tutti faranno credere che gli uomini sono più forti, che non devono chiedere mai, che ogni occasione è buona per dimostrarlo, coi pugni, col sesso, con le armi. E lui potrebbe diventare come loro. Ma io mi ripeterò ogni giorno, dal suo primo respiro fino all’ultimo mio, che ho la responsabilità di insegnargli il contrario di tutto quello che assorbirà dal mondo. Che non potrò permettermi l’ingenuità di banalizzare una parola fuori posto, di giustificare un comportamento violento, di fingere di non vedere un’avvisaglia, un sintomo… Dovrò fare tutto quello che è in mio potere e sperare sia sufficiente. E forse, purtroppo, non sarà sufficiente comunque.
Un incastro di contraddizioni croniche, a partire dal fatto che potrei scrivere di qualunque cosa ma che vado in crisi se si tratta di parlare di me. 30 anni, copywriter, giornalista e marketing manager. Laureata in lingue perché affascinata da tutto quello che non somiglia al posto in cui vivo. Sarà perché vivo in un paese piccolo, dove per i sogni a volte sembra non esserci spazio, allora ogni tanto vorrei infilarli in valigia e portarli con me all’estero. Viaggi brevi però, perché credo anche nelle radici, continua a leggere