Disabilità invisibili: intervista a Giusy Alfano
Abbiamo intervistato la dott.ssa Giusy Alfano, non vedente da alcuni anni. Ci ha raccontato la sua storia, ha condiviso le sue impressioni su quel che a Sant’Antonio Abate si fa per la disabilità dando preziosi suggerimenti, ci ha invitato a riflessioni semplicemente disarmanti… Il tutto potete leggerlo nell’articolo di seguito o ascoltarlo cliccando sul player: è il nostro piccolo impegno affinché questa intervista possa essere di tutti e per tutti.
Come parlare di disabilità? Cosa dire? Cosa poter fare? Sono le domande che ci siamo posti decidendo di lavorare ad un progetto (ora in fase di realizzazione) sulle “disabilità invisibili”, in particolare quelle legate alla vista e all’udito. Per cercare le risposte, queste domande le abbiamo fatte a chi questo tipo di disabilità le vive in prima persona. Ne è nata, quasi spontaneamente, un’intervista… Anzi, due.
Oggi condividiamo la prima: l’intervista alla dott.ssa Giusy Alfano, abatese, donna, lavoratrice, mamma, compagna, figlia… E tanto altro ancora!
Dott.ssa Alfano, sei anche un’amica di Tutta n’ata storia, quindi durante l’intervista ti chiameremo semplicemente “Giusy”. Ma ci raccontavi che ti capita, per altri motivi, anche a lavoro di essere “semplicemente Giusy”: raccontaci subito questo aneddoto…
Sono una dipendente dell’ASL e, essendo laureata, firmo le email e i documenti come “dott.ssa Alfano”. Quando, poi, i destinatari del cartaceo mi incontrano di persona e intuiscono che sono non vedente, da “dottoressa” divento prima “Alfano”, poi “signora”… A me fa sorridere, perché più aumenta il loro disagio, più vengo declassata.
Non ti dà fastidio?
A me quello che dà davvero fastidio è la rinuncia delle persone nel relazionarsi, a causa dall’imbarazzo. Questa è una malattia strana. In Associazione (Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti – sez. Napoli, ndr) seguiamo anche dei ragazzi la cui patologia li porterà a diventare non vedenti; gli ripeto sempre che loro con il tempo non vedranno più, ma saranno gli altri a renderli invisibili.
Quindi, ci sembra di capire che non ti importa più di tanto cosa ti venga detto, purché ti venga detto. Eppure spesso, quando si parla di o con una persona non vedente, si ha proprio paura di non sapere usare le parole, a partire dai termini “cieco”, “ipovedente”, “non vedente”… Ci aiuti a fare chiarezza?
Possiamo rifarci alla terminologia giuridica, in particolare alla Legge 104 che chiarisce tutto ciò che dobbiamo sapere riguardo alla menomazione sensoriale e quindi anche visiva; ma possiamo altresì rifarci alle definizioni tecnico-mediche. Il termine “ipovedente” è il più giovane: lo si sta usando da una decina d’anni. L’Unione Italiana Ciechi ha appunto da non molto cambiato il proprio nome in Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti. Tra gli ipovedenti rientrano tutti coloro che hanno una visione distorta o ridotta rispetto ai normodotati, cioè rispetto a chi vede 10/10.
Ti va di raccontarci meglio la tua storia?
Ho perso l’occhio sinistro nel 2005 e, pian piano, anche l’altro. A volte, quando sono molto arrabbiata, penso che sarebbe stato meglio nascere direttamente non vedente: avrei conosciuto e impostato la vita in un altro modo, e forse sarei stata più autonoma. Invece, ho dovuto trovare modi alternativi per vivere la realtà. A me, ad esempio, piaceva cucinare, soprattutto fare i dolci. Sono stata costretta a rifare tutto daccapo, ho dovuto imparare a vedere con le mani.
Come hai fatto?
C’è stato sicuramente in primis un grande lavoro psicologico. La disabilità non si accetta mai e, in più, non colpisce solo la persona ma tutta la sua famiglia. Ci tengo a dirlo perché è un punto secondo me troppo trascurato anche nei programmi socio-politici. Chi sta intorno ad una persona non vedente, come il mio caso, deve rielaborare tutto, a partire dagli spazi: le sedie vanno messe in un altro modo, non si possono lasciare cose a terra… E questa può essere solo la parte meno complicata. Ora vi dico questa cosa che a me fa ancora soffrire, ma voglio raccontarvela per darvi la misura di quello che mi è successo quando avevo circa vent’anni.
Ti ascoltiamo…
Io sono stata sempre molto vanitosa, amavo truccarmi e tutte le cose un po’ frivole da adolescente. Ma quando ho avuto la diagnosi della malattia, quindi quando ancora qualcosa vedevo, ho iniziato a non truccarmi più, a vestirmi tutta di nero, a curarmi meno… Non ci avrei visto più, che senso aveva?! La mia mamma, allora, mi chiuse nel bagno della cameretta, spense le luci e mi disse: “Adesso tu devi continuare a vivere: esci truccata, esci come la persona nuova della vita nuova che devi avere. Perché la devi avere”.
E tu come hai reagito?
Io ho pianto, tantissimo. Ho odiato mia mamma in quel momento, mi chiedevo perché mi stesse facendo soffrire quando io già stavo soffrendo tanto e avevo bisogno di una coccola. Ma anche mia mamma piangeva, dentro. Oggi la ringrazio. All’epoca non vi era un’attività di associazionismo ad hoc, che guida le famiglie in un certo modo, quindi anche per lei era tutto sconosciuto. Ma soprattutto la ringrazio perché io ne sono uscita una persona nuova: in quell’esperienza ho capito che il mondo non mi avrebbe trattato diversamente perché non vedevo, anzi sarebbe stato più duro, e cercare una soluzione nel pratico sarebbe stata la mia forza per coltivare la mia personalità, conservando la mia dignità.
“La persona nuova della vita nuova” che tua mamma ti ha incoraggiato a diventare è anche una professionista. Come ti sei organizzata da non vedente per il tuo lavoro?
Ho iniziato a lavorare già da non vedente. Mi avvalgo di un sistema di sintesi vocale in cui riesco a leggere i documenti scannerizzandoli. Ho trovato una dirigente che non mi ha messo a fare la centralinista, ma anzi mi ha dotato della strumentazione e del tempo utile affinché io potessi svolgere al meglio il ruolo per cui ho studiato. Nella mia vita sono stata fortunata, perché mi sono interfacciata con donne “toste” – sia a lavoro sia in famiglia – che mai mi hanno dato la possibilità di usare la mia disabilità come scusa per fare meno.
Poi è arrivata un’altra piccola “donna tosta”, tua figlia…
Eh sì, fare la mamma è stata la prova più difficile! Mentre un collega può fare una cosa al posto tuo, nessuno può sostituirti come mamma. Mia figlia pretende che certe cose le faccia io e anche io pretendo delle cose da me stessa. Ad esempio, prima di andare a dormire, le preparo i vestiti per il giorno dopo e mi impegno affinché tutto sia coordinato: ho il terrore di sbagliare, che qualcuno la guardi e pensi sia vestita in quel modo perché “ah, la mamma non vede”. Sembra una cosa stupida, ma è il mio impegno come mamma di dimostrare la cura per lei.
Come ti sei rapportata con tua figlia?
Quando ho avuto la mia bimba ho sofferto tantissimo. Innanzitutto, non l’ho potuta vedere. Poi pensavo che non le avrei mai potuto leggere una favola. Io sono una divoratrice di libri, questa cosa mi pesava non poco. Fino a quando ho trovato un metodo: ascoltavo prima l’audiolibro e poi facevo finta di leggerle il libro che avevo tra le mani. Ma lei a un certo punto l’ha capito. Magari il papà o qualcun altro le aveva già raccontato quella storia e si accorgeva che la mia versione aveva qualche particolare in più, perché, non ricordando perfettamente dei pezzi, aggiungevo dettagli, descrizioni… Sapete cosa mi ha detto? “Tu me la racconti diversamente, però mi piace di più”.
Ai bambini non si può nascondere nulla e sanno sempre sorprendere…
Già! Vi racconto un momento che è stato emozionante, ma allo stesso tempo duro. Quando le ho detto che non potevo fare delle cose perché non vedevo, lei, sapendo che mio marito a casa è un tuttofare, ha detto: “Papà, mamma ha gli occhi rotti, non glieli puoi aggiustare?”. Un po’ abbiamo riso e un po’ abbiamo pianto. Sono cose a cui nessuno ti può preparare. Però rinunciare, alla famiglia come al lavoro, ti toglie più di quanto ti ha tolto la malattia… E il suggerimento è fare, anche se fa male.
Per te che è quotidianità, cosa significa muoversi a Sant’Antonio Abate?
Sant’Antonio Abate è un paese che da questo punto di vista ha ancora tanto da lavorare. Ad esempio, in Piazza c’è un tratto percorribile proprio col bastone bianco, ma è sconnesso: non porta da un punto A a un punto B, dove i punti A e B dovrebbero rappresentare due posti di pubblica utilità (come la Posta, il Comune, la Chiesa…). Almeno il centro del paese, prima che le periferie, dovrebbe essere più accessibile. Partire da certe zone affinché il tutto si espanda a goccia è importante.
Qual è la situazione riguardo le barriere architettoniche?
Ci sono tantissime barriere architettoniche a Sant’Antonio Abate. Mi piacerebbe dire il contrario, ma non è così. I marciapiedi non hanno tutti lo stesso livello, non ci sono sempre gli scivoli, con le ristrutturazioni per il bonus 110% sono aumentati pure i cantieri e quindi è mutata la conformazione del territorio che, pur con tutte le barriere, avevamo imparato a conoscere… Questo disagio riguarda chi vive una situazione di disabilità, ma è proprio anche di chi ha avuto ad esempio un piccolo incidente e deve stare sulla sedie a rotelle per un breve periodo, o semplicemente di una mamma col passeggino.
Secondo te, la presenza di queste difficoltà influenza la vivibilità del paese per persone che vivono situazioni di disabilità?
Se tu cominci a capire che nel tuo paese non puoi andare a mangiare un gelato, non puoi portare tuo figlio ai giardinetti, non c’è lo spazio per te, pensi che il tuo paese non ti voglia. Dopo aver incontrato una difficoltà il primo giorno e un’altra il secondo giorno, il terzo giorno resti a casa. Bisogna lavorare sulla possibilità di far fare le cose più banali a tutti. Io odio gli eventi destinati ai disabili una tantum: il disabile non è come una marmotta che esce due volte all’anno, il disabile è quello che deve fare la spesa, che deve accompagnare il figlio a scuola, che vuole andare a fare shopping o a prendere un caffè al bar…
Oltre agli aspetti architettonico-strutturali, un altro elemento fondamentale è la presenza di servizi. Come e dove potrebbe migliorare il nostro paese a riguardo?
Dall’esperienza personale, vi dico che l’80% del lavoro che facciamo con l’Unione Ciechi riguarda richieste e documentazione in generale. Ci sono persone che non chiedono il tesserino per parcheggiare negli stalli riservati ai disabili perché è complicato. Potrebbe brillare in questo Sant’Antonio Abate? Sì, creando uno sportello per la richiesta di documenti simili, per l’assistenza scolastica, per usufruire delle gratuità previste…Anche questo è importante: avere un posto gratis al museo, al cinema, al teatro è giusto, perché ti dice che anche tu disabile puoi andare a teatro!
Sei fiduciosa riguardo a quanto Sant’Antonio Abate può fare riguardo la disabilità?
Sì. Innanzitutto, Sant’Antonio Abate ha un garante dei diritti delle persone con disabilità: è una figura che non tutti i Comuni possono vantare, un fiore all’occhiello per il nostro paese. Dobbiamo sfruttare la sua presenza oltre che l’apertura mostrata verso il tema dall’amministrazione e dallo stesso Sindaco. Il team è giovane e preparato e si sta muovendo bene. Ovviamente, c’è e ci sarà tanto da fare, perché ci portiamo comunque il retaggio delle amministrazioni precedenti che hanno tenuto poco conto della disabilità.
Cambiando argomento – ma nemmeno troppo – com’è andata e come sta andando in tempo di Covid?
Malissimo. Immaginate cosa ha dovuto affrontare tra obbligo di guanti e paura del contagio chi come me non vede ed è abituato a toccare tutto. E non è stato solo questo. Con il distanziamento sociale muoversi con un accompagnatore era difficile: ogni volta dovevo spiegare che non vedevo e quella persona era con me. Chi ti vede non sa che non vedi.
Siamo arrivati alla fine dell’intervista. Ti chiediamo di chiudere lasciando un messaggio a: istituzioni, persone che vivono situazioni di disabilità, persone che sono arrivate al termine di questa intervista.
Allora, alle istituzioni direi di lavorare sul fatto che Sant’Antonio Abate è piccola: può abbracciare più da vicino il tema della disabilità, senza troppi intermediari. Secondo me, si deve iniziare dall’istituzione di un registro delle disabilità che, pur ottemperando alle norme sulla privacy, permetta al paese di conoscere le disabilità più diffuse, in modo da capire dove intervenire in maniera più puntuale, per poi concentrarsi sul resto. Per chiederti che ti serve, io amministrazione devo sapere chi sei, che disagio hai.
In modo prospettico, alle persone che vivono situazioni di disabilità dico di rispondere. C’è una frase che mi spacca proprio il mondo a metà, quando la dico e quando la sento da altre persone con disabilità: “Loro non capiscono”. è una frase che presuppone la rinuncia. Cerchiamo di non rinunciare. Se qualcuno vi chiede la vostra storia, raccontategliela, non vi mortificate, non vi spazientite… Quell’atto è l’inizio dell’interesse degli altri: l’indifferenza fa molto più male. Dover chiedere aiuto è l’atto più difficile e devastante quando sei disabile, perché capisci che da solo non ce la fai, che ti manca qualcosa o, peggio, che gli altri hanno qualcosa in più che a te è stato negato. Bisogna avere il coraggio di superare ciò.
Infine, a chi è arrivato alla fine di questa intervista faccio i complimenti. Può essere noioso, può essere una cosa che non interessa perché “non sono disabile, non ho amici disabili, che me la leggo a fare”. Chi è arrivato alla fine dell’intervista è uno che legge sempre romanzi d’amore, ma ha scelto di leggere un thriller; una persona che ha già fatto il primo passo per guardare verso l’altro.
“Devi cambiare d’animo, non di cielo”: la frase che mi ripeto più spesso quando mi viene voglia di scappare; ma restare mi piace di più. Credo nelle radici anche quando meriterebbero di essere estirpate.
Il mio primo amore è stato – ed è – il calcio. A 14 anni ho iniziato a seguire il Sant’Antonio Abate, prima da appassionata e poi da addetto stampa: Eccellenza, serie D, Eccellenza e continua a leggere