Dove finisce la libertà d’opinione?
Pochi giorni fa le pagine social di Casapound e Forza Nuova sono state oscurate perché, secondo gli amministratori di Facebook Italia, inciterebbero all’odio. Non si tratta forse di una limitazione della libertà d’opinione sancita dalla Costituzione?
“Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo”. Quante volte vi siete imbattuti in questa frase? È utilizzatissima come sottotitolo delle tesine di liceo, inflazionata oltremisura sui social, assunta non di rado come grido di battaglia nell’eterna lotta alla repressione e alla censura. Attribuita all’illuminista Voltaire, la citazione sembra portare alle estreme conseguenze l’articolo 21 della Costituzione Italiana, quello secondo cui “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ma se questo è quello che dicono prima Voltaire e poi la nostra stessa legge fondamentale, allora possiamo accettare in silenzio il fatto che qualche giorno fa le pagine social di Casapound e Forza Nuova siano state oscurate insieme a tutti i profili ad esse connessi? Gli amministratori non si limitavano, attraverso quei canali, ad esercitare un alienabile diritto messo nero su bianco dai Padri Costituenti? Ha ragione o no chi dice che Facebook in questo caso ha fatto una scelta “liberticida”?
La risposta non è scontata ed è quindi più che lecito che l’occasione sia stata colta per aprire un necessario dibattito su censura e libertà di parola. Una questione complessa che andrebbe sviluppata sotto più aspetti ma da cui ci limiteremo per ora a prendere spunto per ribadire – e non lo avremo mai fatto abbastanza – che il fascismo è un reato, non un’opinione, e lo dice proprio la legge italiana.
La riorganizzazione del Partito Nazionale Fascista è innanzitutto vietata dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. “Si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista – viene precisato poi nella Legge Scelba (1952) – quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”.
Ma perché le disposizioni introdotte nel 1952 dovrebbero vincere sulla libertà d’opinione garantita dall’articolo 21 della Costituzione? Non volendo scomodare le questioni giuridiche, in cui forse ci siamo già troppo impelagati, il groviglio si scioglie quasi in automatico se ci si sofferma un attimo su un’espressione: “si ha organizzazione del disciolto partito fascista quando […] un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista […] propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione”. È qui che la legge Scelba trova il suo anello di congiunzione con la libertà di opinione: non è corretto affermare che la limita quanto piuttosto che tenta di tracciare una linea di confine oltre la quale esercitandola si limitano le altre libertà garantite dalla Costituzione. Non sono libero di essere fascista perché il fascismo di per sé nega tutta una serie di altri diritti costituzionali, a partire da quello d’opinione tanto difeso adesso proprio da chi alza il braccio destro in memoria dei bei tempi in cui certe opinioni non potevano essere espresse neanche al bar. La legge, in sintesi, può tutelare la mia libertà solo fin quando non significa ledere la tua. E quanti vengono ogni giorno lesi delle manifestazioni razziste, omofobe, sessiste e in qualsivoglia altro modo discriminatorie di partiti come Casapound e Forza Nuova?
I militanti delle due organizzazioni, tra l’altro, non hanno mai fatto mistero della nostalgia con cui si ispirano al ventennio fascista. Cavilli giuridici, ma anche innegabili questioni politiche, hanno finora salvato queste organizzazioni dall’intervento dello Stato, che permette loro di esistere, candidarsi, avere rappresentanti nelle pubbliche amministrazioni, fare campagna elettorale e diffondere il loro messaggio anche sui social. Fin quando Facebook non ha detto basta. Dopo aver avviato da marzo in tutto il mondo un processo di epurazione del social dall’odio e dalla violenza, i provvedimenti di Zuckerbeg sono arrivati anche in Italia. Una decisione presa perché è stato dimostrato che internet e i social network, per quanto spesso chi pubblica, commenta e condivide non se ne renda conto, hanno giocato in questi anni un ruolo fondamentale nella propaganda di discorsi d’odio e nell’istigazione a comportamenti violenti. Solo per fare un esempio, Brenton Tarrant, il killer di Christchurch che a marzo scorso ha fatto irruzione armato in una moschea uccidendo 49 persone, aveva annunciato la sua strage sui social, spiegando che lui avrebbe sparato davvero a differenza dei “poveri finocchi” che si limitavano al razzismo da tastiera. Riprese 17 minuti di massacro trasmettendolo in diretta streaming. Ma è solo uno dei tanti casi in cui la componente social nelle stragi o negli atti violenti è stata così evidente da aver convinto Facebook a combattere la diffusione di determinati messaggi.
Quella di Zuckerberg è un’azienda privata, libera di decidere le regole da imporre nella sua community e di applicarle. Resta da chiedersi quando e se lo Stato Italiano si preoccuperà di trovare il modo di applicare le sue. E per la cronaca, Voltaire la frase “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo” non l’ha mai detta.
Un incastro di contraddizioni croniche, a partire dal fatto che potrei scrivere di qualunque cosa ma che vado in crisi se si tratta di parlare di me. 30 anni, copywriter, giornalista e marketing manager. Laureata in lingue perché affascinata da tutto quello che non somiglia al posto in cui vivo. Sarà perché vivo in un paese piccolo, dove per i sogni a volte sembra non esserci spazio, allora ogni tanto vorrei infilarli in valigia e portarli con me all’estero. Viaggi brevi però, perché credo anche nelle radici, continua a leggere