Perché un detenuto bendato mette in crisi uno Stato
Una foto che ha fatto il giro del mondo ci pone dinanzi alla questione: lo Stato di diritto esiste ancora?
I fatti sono noti: nella notte tra giovedì 25 e venerdì 26, a Roma, due giovani americani, Finnegan Lee Elder e Christian Natale Hjorth, assassinavano a coltellate il carabiniere Mario Cerciello Rega, intervenuto con il collega Andrea Varriale per effettuare un’operazione di polizia. Dopo l’arresto dei due diciannovenni, è stata diffusa una foto che ritrae Elder, l’omicida, ammanettato e bendato nella caserma in cui era stato preso in custodia. Lo scatto, oltre alle probabili conseguenze penali e disciplinari a carico dei carabinieri autori del gesto, ha dato luogo ad un acceso dibattito politico che ha coinvolto, per mezzo social, anche i cittadini.
Per il Ministro dell’Interno Matteo Salvini, la questione della bendatura dell’arrestato è solo di tipo morale: “A chi si lamenta, ricordo che l’unica vittima per cui piangere è un carabiniere morto in servizio, morto per mano di gente che, se colpevole, merita la galera”. Per il leader leghista, una benda e un paio di manette non possono far deviare i sentimenti di pietà dalla vittima al carnefice. Ha ragione.
Sin dall’antichità, infatti, all’uomo che subiva un torto era concesso di vendicarsi. Il reo, specie se colpevole di crimini riprovevoli, non era degno di rispetto, veniva emarginato, sottoposto ad espiazione. Ben presto però, l’esigenza di mantenere l’ordine sociale spostò la competenza di punire dal soggetto leso ad un’autorità terza, che avrebbe di certo garantito l’applicazione di una più giusta punizione. La vendetta diventava pena; lo stato primitivo iniziava la sua lunga evoluzione verso lo Stato di diritto, quello in cui viviamo oggi, fondato sul principio della legalità, della separazione dei poteri, della terzietà della magistratura.
L’uccisione di un carabiniere in servizio genera sentimenti di mestizia ed è – moralmente – un fatto ben più grave della bendatura di un reo confesso, ha ragione Salvini. Ma la questione non può condursi solo sul piano morale, non più. Non ha senso pesare due fatti sulla bilancia dell’emotività. Da quando lo Stato ha avocato a sé il diritto di punire, i suoi rappresentanti, nel nome della Costituzione, diventano sacerdoti della legge, garanti dei principi fondativi dello Stato. A loro, chiamati a spogliarsi degli istinti primitivi e irrazionali di vendetta – non a caso forze di polizia, magistrati, avvocati indossano una divisa – è demandato il compito di applicare le regole e realizzare giustizia.
Garantire un trattamento giusto (nel senso di secondo legge) e umano al soggetto detenuto o preso in custodia dallo Stato è un principio sancito dal diritto nazionale e sovranazionale. Pretendere che il piano morale e quello giuridico di un fatto di cronaca siano tenuti separati non rappresenta un segno di debolezza o di patteggiamento per il carnefice. Pretendere che il detenuto sia rispettato non significa essere indulgenti o non mostrare pietà per la vittima: vuol dire, invece, continuare a sostenere l’impalcatura – sempre più debole – dello Stato di diritto. Perché se essa crolla, finiremo tutti sotto le sue macerie.
Giustificare il trattamento subito da Elder, quindi, induce a confondere la pena (oggettiva) con la vendetta (emotiva), facendoci cadere nel paradosso di considerare giusto un comportamento che è, invece, ingiusto perchè soggettivo. Lo smembramento dello Stato di diritto, che assicura oggettività e parità di trattamento, lascia il posto allo Stato disordinato e ci espone al rischio, una volta sprovvisti di garanzie legali, di farci brancolare come bendati nell’oscurità dell’arbitrarietà e dell’abuso.
Classe 1995 e svariati sogni nel cassetto. Diritto, politica e astronomia sono le mie passioni: razionale al punto giusto, nel tempo libero mi lascio affascinare dall’infinito. Passerei intere giornate a leggere classici perché in uno vi ho letto che “la bellezza salverà il mondo”. E ci credo follemente.