Fenomeni partenopei: perché il rap a Napoli funziona?
Perché il rap va così di moda oggi? Analizziamo il fenomeno in un posto come Napoli: la storia recente dai Co’Sang ai nuovi trapper campani.
“Per me la musica la fanno due tipi di persone: o chi sa sognare o chi sta in mezzo ai guai”. Un giovane Clementino intervistato per la realizzazione del documentario “Napolizm vol.2” sorride e pronuncia queste parole. Immaginate un po’ a Napoli, terra di “guappi” e di sognatori, come si può farla bene.
“Napolizm vol.2” è il documentario ideato da Alberto Polo de La Famiglia (gruppo fondamentale per la diffusione dell’hip hop in Italia) che mostra la scena rap campana alla fine degli anni ’90.
Guardando le immagini possiamo ben capire quanto già all’epoca questo genere, non ancora arrivato in cima alle classifiche italiane, funzionasse così tanto a Napoli.
E proprio Clementino – tra i fenomeni più apprezzati in Italia – è una delle prove di questa teoria.
Il rap è un genere che nasce in qualche modo da una condizione particolare: è la musica adatta per denunciare, per trasformare la propria frustrazione o i propri sogni in parole. E quando si genera da un reale bisogno di rivalsa viene sempre ripagato.
Lo sanno bene i Co’ Sang, l’ex duo che ha cambiato il modo di fare e percepire il rap game.
Parlare ai ragazzini di Napoli dei Co’ Sang è come parlare di Maradona: leggenda.
Quello che hanno fatto Luchè e Ntò all’inizio del 2000 è stato molto semplice: stanchi della loro condizione sociale e venendo da un quartiere come Marianella, hanno iniziato a scrivere e a raccontare – rigorosamente in napoletano – quello che vivere nelle periferie comporta. Così, parlando ai giovani che quella condizione e quello che dicevano sul palco lo vivevano ogni giorno, hanno avuto il giusto riconoscimento. Il talento poi ha fatto il resto: collaborazioni coi grandi nomi del rap italiano e successo in qualsiasi regione. Ad un certo punto tutti volevano i Co’ Sang e volevano essere i Co’ Sang. Nessuno, però, è stato in grado di eguagliarli; così, quando nel 2012 hanno annunciato la divisione del duo, ciò che ne è rimasto è la musica, da poter far ascoltare ai nuovi che si affacciano al rap.
Ntò e Luchè hanno poi intrapreso strade diverse: il primo è rimasto più legato ad un’idea “simil Co’ Sang” di fare rap; il secondo, invece, ha iniziato a sperimentare utilizzando l’italiano e collezionando grandi risultati.
Da quando i Co’ Sang si sono sciolti, le cose sono molto cambiate: il rap scala le classifiche e conta sempre più artisti. Il nuovo è diventata la “trap” che – ovviamente – è arrivata anche a Napoli. E continua a funzionare. Essere un (t)rapper
è il sogno delle nuove generazioni di ragazzi di quartiere, che sono passati dal voler fare i cantanti neomelodici a fare rap, perché hanno capito che quello che hanno dentro e attorno possono esprimerlo con delle rime e un beat. Enzo Dong, Vale Lambo, Lele Blade, Geolier, i salernitani Capo Plaza e Peppe Soks sono solo alcuni dei nuovi che ce la stanno facendo. Essere un (t)rapper al giorno d’oggi significa sapersi “vendere” al pubblico. Fa parte del gioco del rap: le collane, gli orologi e le scarpe firmate rappresentano la rivincita. Venire dal niente, volere tutto e ottenerlo a forza di sacrifici: i nomi sopra citati o quelli che si affacciano allo stile lo sanno. Crescere in certi ambienti è e dev’essere un “valore aggiunto”, un modo per poter eliminare il marchio che chi viene “dalla strada” inevitabilmente porta con sé. Per questo i (t)rapper – o almeno quelli campani – non vanno condannati a prescindere o solo perché non possono piacere ai più anziani.
“Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” cantava De André e si sa che l’arte nasce dal disagio. Quindi, non è solo il napoletano che sta bene sulla base ad aggiungere il “tocco di classe” ai rapper campani, ma è il posto in cui si è stati e a cui inevitabilmente si è legati per sempre. Per questo il rap quarant’anni fa nasceva nel Bronx e dagli afroamericani. E se DJ Kool Herc, annoverato tra i “creatori” del rap, fosse cresciuto nella periferia di Napoli? Avrebbe dato le stesse feste e avrebbe creato la stessa magia! Il resto poi sarebbe stata ugualmente storia.
“In direzione ostinata e contraria” come Fabrizio De André. Ascolto troppi dischi, vado a molti concerti e riverso le mie sensazioni su fogli Word scritti in Helvetica. La mia musica è sempre lì: tra i miei abissi e le mie montagne, pronta ad accogliermi come un vinile di Chet Baker. Faccio liste che lascio sparse in giro per casa, perché mi aiutano a mettere in ordine i pensieri, le idee e i film che devo assolutamente vedere prima di morire.
Mi piacciono: la politica che mi fa sentire viva, le storie dei matti e le storie folli, i luoghi abbandonati, Kurt Cobain, la violenza sul grande schermo, i tatuaggi, i nei, il mare d’inverno, l’Islanda e l’Africa, il numero 7 che mi ricorda che ci si può dedicare una vita intera alle passioni, Peaky Blinders e Vikings, la mia Albania, perdermi tra le Chiese e i vicoli di Napoli, l’orgoglio che ci metto nel dire che sono del Sud, il giradischi che ho comprato lavorando per qualche mese ad Amnesty International e la mia (ancora piccola) collezione di vinili.