#magliettarossa: se la solidarietà diventa una colpa
L’iniziativa #magliettarossa lanciata dal presidente nazionale di Libera Don Luigi Ciotti ha fatto insorgere i social, specchio di un’Italia sempre più divisa sulla questione migranti. Una riflessione sul tema.
Soltanto a giugno di quest’anno, secondo i dati forniti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), è morta una persona su sette tra chi ha tentato di attraversare il Mediterraneo, contro un rapporto di uno ogni trentotto nel 2017. Dall’inizio del 2018 il mare ha fatto oltre mille vittime. Numeri esorbitanti, ma solo numeri per chi ha il privilegio di leggerli dalla terra ferma, su una poltrona comoda, puntando il dito sullo schermo di uno smartphone con cui cancellare le brutte notizie passando dalla lettura dell’ultima Ansa allo scorrimento veloce delle storie su Instagram. Numeri, fin quando una foto non ci schiaffeggia la coscienza: tre uomini recuperano i corpi esanimi di tre bambini piccolissimi morti annegati durante l’ennesimo naufragio al largo delle coste della Libia. Chiedere di non essere più costretti a vedere immagini come quella, oggi, in Italia è una colpa.
È il paradosso che si è scatenato di fronte all’iniziativa lanciata da Don Luigi Ciotti per lo scorso 7 luglio. Il presidente nazionale di Libera – Associazioni, Nomi e Numeri contro le mafie aveva invitato tutti a indossare una maglietta rossa, dello stesso colore degli indumenti con cui tanti genitori vestono i loro figli prima di metterli su una barca nella speranza che il colore acceso dei loro abiti li renda riconoscibili in mare e attiri più facilmente i soccorsi. Era questo l’appello di Libera. Compiere un’azione simbolica per chiedere un’Europa più giusta e un’accoglienza in grado di conciliare la sicurezza coi diritti umani. Perché nessun altro bambino venga recuperato coi vestiti zuppi e il volto riverso nella sabbia. Eppure, anche di fronte a un’iniziativa pacifica, partita da una rete di organizzazioni contro la mafia e non da una parte politica, sui social si è riversata tutta la frustrazione di un paese completamente alla deriva.
Eccolo quindi il paradosso: se sei per l’accoglienza non sei per gli italiani. Non sei dalla parte dei poveri, dei lavoratori sottopagati, delle famiglie che non arrivano a fine mese, degli invalidi senza pensione, di chi si è suicidato per la pressione fiscale. Se sei per l’accoglienza sei un buonista ipocrita e radical chic, un pdiota sinistroide che i migranti dovrebbe portarseli a casa sua. Questa è l’Italia signori: un paese dove bisogna scegliere per quali ingiustizie schierarsi. Non è ammissibile lottare per i diritti di tutti e pretendere equità sociale. Non ti crede nessuno se gli racconti che oggi ti batti per l’accoglienza e ieri per i lavoratori della Coop di Avellino, se fai presente che avresti aderito ad un’iniziativa del genere anche se fosse stata per i precari, se spieghi che non stare dalla parte di Salvini non significa stare da quella di Renzi, che gli ideali non sempre sono un fatto politico e che valori come solidarietà e empatia non si acquisiscono con una tessera di partito.
È una guerra persa in partenza proprio perché è una guerra. Inutile e insensata come la maggior parte delle guerre. E mentre noi combattiamo tra di noi per decidere se siano più importanti i poveri italiani o i poveri immigrati, chi è al governo viene condannato a restituire 49 milioni.
Non è che forse il problema sono i ricchi?
Una maglietta rossa per quanto siamo diventati ciechi.
Un incastro di contraddizioni croniche, a partire dal fatto che potrei scrivere di qualunque cosa ma che vado in crisi se si tratta di parlare di me. 30 anni, copywriter, giornalista e marketing manager. Laureata in lingue perché affascinata da tutto quello che non somiglia al posto in cui vivo. Sarà perché vivo in un paese piccolo, dove per i sogni a volte sembra non esserci spazio, allora ogni tanto vorrei infilarli in valigia e portarli con me all’estero. Viaggi brevi però, perché credo anche nelle radici, continua a leggere