Al governo il partito della rabbia
Nel giorno del giuramento ufficiale del nuovo governo, abbiamo voluto riflettere sulla situazione politica di un’Italia sempre più frammentata, in cui esiste un solo ed unico partito a detenere la maggioranza, ma non si chiama M5S né Lega.
Si tiene oggi alle 16, alla vigilia della Festa della Repubblica, il giuramento ufficiale del nuovo governo, nato a quasi tre mesi dalle elezioni politiche e a seguito di un iter travagliato, che si è concluso col felice matrimonio tra Lega e M5S. Giuseppe Conte si appresta così a diventare il nuovo Presidente del Consiglio. Ieri, poi, è stata ufficializzata anche la lista di nomi che comporranno la sua squadra. Sono 18 i nuovi ministri pronti a governare l’Italia. E siccome del Premier si è già detto tutto – a partire da un curriculum di cui non si può che apprezzare la creatività – è il caso di dare uno sguardo anche a chi andrà ad affiancarlo.
Luigi Di Maio (capo-partito del M5S): Ministro dello Sviluppo economico e vicepremier.
Matteo Salvini (capo-partito della Lega): Ministro degli Interni e vicepremier.
Giovanni Tria (Lega): Ministro dell’Economia
Enzo Moavero Milanesi: Ministro degli Esteri
Alfonso Bonafede (M5S): Ministro della Giustizia
Elisabetta Trenta (M5S): Ministra della Difesa
Paolo Savona: Ministro degli Affari Europei
Marco Bussetti (Lega): Ministro dell’Istruzione
Giulia Grillo (M5S): Ministra della Salute
Giulia Bongiorno (Lega): Ministra della Pubblica amministrazione
Alberto Bonisoli (M5S): Ministro dei Beni culturali
Gian Marco Centinaio (Lega): Ministro dell’Agricoltura
Danilo Toninelli (M5S): Ministro delle infrastrutture e trasporti
Sergio Costa: Ministro dell’Ambiente
Lorenzo Fontana (Lega): Ministro di Famiglia e disabilità
Riccardo Fraccaro (M5S): Ministro dei Rapporti con Parlamento e democrazia diretta
Barbara Lezzi (M5S): Ministra per il Sud
Erika Stefani (Lega): Ministra degli Affari generali e autonomie
Giancarlo Giorgetti (Lega): Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
È il governo del cambiamento secondo qualcuno, la preoccupante ascesa del populismo per qualcun altro. Quello che è certo, è che un governo che mostra, tanto per come si è formato quanto per come ha rischiato di non formarsi affatto, tutti i sintomi di un Paese malato, col corpo fratturato in più punti e la testa ferita nel profondo, incapace di mantenere un reale controllo di quanto le accade intorno.
Quel corpo è un popolo che in tempo di elezioni si è spaccato, non concedendo a nessun partito – per quanto tutti si ergano a vincitori – una maggioranza di voti tanto rilevante da poter formare da solo un governo. Da qui la scelta di un’alleanza che, per quanto se ne dica, non può di certo essere definita l’espressione della volontà del popolo. Alle urne – e questo è un dato di fatto – gli italiani non hanno votato un’alleanza tra M5S e Lega. Al contrario, hanno scelto l’uno o l’altro partito, l’uno o l’altro programma, le une o le altre idee, e di questo non si può non tenere conto. Quello che è successo dopo – l’alleanza, l’accordo di programma – è assolutamente lecito, comprensibile e probabilmente necessario, ma resta un punto d’incontro trovato tra i vertici e non è provato in alcun modo che corrisponda a quanto volessero gli elettori.
Lo capiremmo solo se chiedessimo a chi ha votato il M5S se si aspettava di ritrovarsi Salvini al Ministero degli Interni con tutte le conseguenze che questo avrà sulle politiche di accoglienza, o se davvero sperava che il Ministro della Famiglia fosse un leghista cattolico anti-aborto. Non è possibile che molti abbiano invece scelto quel Movimento proprio perché – secondo i sondaggi – era l’unico antagonista a poter competere col Centro-Destra? Ma il discorso vale anche al contrario: bisognerebbe domandare agli elettori della Lega se, esprimendo la loro preferenza il 4 marzo, stessero mettendo in conto la possibilità di scendere a compromessi con la loro idea estrema di Europa, di Sud, di immigrazione e di omosessualità, perché in tanti, in troppi, sembravano sperare sul serio che Salvini occupasse Palazzo Chigi con la ruspa.
Qualche scontento, insomma, oggi probabilmente c’è dappertutto: dalla sinistra alla destra senza tralasciare il centro. E il paradosso è che tutti quelli che hanno twittato #ilmiovotaconta fino a farsi venire i crampi alle mani, stavano in realtà festeggiando il fatto che effettivamente no, il nostro voto in questo caso non conta. E non perché ci sia dietro un complotto ardito dall’UE, e neppure per l’alleanza a tradimento di due partiti che si facevano la guerra fino al 4 marzo. L’unica ragione è che – per fortuna – il popolo non elegge il governo, bensì il Parlamento. Non abbiamo voce in capitolo né sull’elezione del Premier né sul resto. Per questo è lecito che Lega e M5S abbiano trovato un accordo in un secondo momento bypassando l’elettorato, così come sarebbe stato lecito se si fosse tornati a votare, anche se col rischio di un risultato altrettanto confusionario. Quello che resta, in ogni caso, è un Paese fratturato in cui l’unica forza ad aver conquistato davvero il popolo è il partito della rabbia. Non esiste una maggioranza che ha votato per determinate ideologie o determinati progetti, ma esiste una maggioranza arrabbiata a cui oggi va bene anche un’alleanza imprevista purché alla guida ci sia qualcuno che ci dica con chi dobbiamo prendercela se quest’Italia non funziona.
Qui, però, arriviamo alla prognosi delle ferite profonde alla testa, quella che governa, oggi sanguinante e purulenta. Perché vanno bene le alleanze e gli accordi di programma, vanno bene gli slogan e la propaganda accorata, ma esistono limiti superati i quali non si sta più facendo politica. Perché la politica – al netto dei colori, delle ideologie, dei partiti e degli schieramenti – non si fa spingendo le masse ad attaccare le istituzioni (l’impeachment, per la cronaca, in Italia neanche esiste), né fomentando l’odio, né giocando sulle debolezze dei cittadini o inventando un nemico comune pur di unirli nella battaglia contro un’invasione che stando ai numeri è immaginaria. La politica – al netto dei colori, delle ideologie, dei partiti e degli schieramenti – si fa chiedendo e permettendo al popolo di partecipare ai processi democratici, e non c’è nulla di democratico nel disegnare negli ideali della massa una seconda marcia su Roma.
Forse domani, per festeggiare davvero la Repubblica, dovremmo tutti ripassare la storia di quando è nata. Almeno se vogliamo evitare che ai nostri figli e ai nostri nipoti tocchi l’obbligo di studiare il giorno in cui sarà morta. Perché la prima – di marcia su Roma – l’ha organizzata Benito Mussolini.
E sappiamo tutti com’è finita.
Un incastro di contraddizioni croniche, a partire dal fatto che potrei scrivere di qualunque cosa ma che vado in crisi se si tratta di parlare di me. 30 anni, copywriter, giornalista e marketing manager. Laureata in lingue perché affascinata da tutto quello che non somiglia al posto in cui vivo. Sarà perché vivo in un paese piccolo, dove per i sogni a volte sembra non esserci spazio, allora ogni tanto vorrei infilarli in valigia e portarli con me all’estero. Viaggi brevi però, perché credo anche nelle radici, continua a leggere