Faber: tra poesia e ribellioni
Dopo il primo incontro della rassegna musicale “Se io avessi previsto tutto questo” organizzata dall’Ass. Musicale “il trillo parlante”, a cui anche noi di Tutta n’ata storia abbiamo collaborato, ecco che a distanza di quasi due settimane vogliamo rendervi partecipi di quello che abbiamo presentato durante la serata: la vita del cantautore genovese di cui si è parlato e condiviso musica e stralci di poesie, Fabrizio De André.
“Pensavo: è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra”.
Te lo immagini così Fabrizio De André: una figura mitologica metà uomo e metà chitarra, che ha lasciato alla musica e al cantautorato italiano le sue più belle parole e note.
Ma da dove spunta fuori questa sua predisposizione alla musica e alla scrittura?
Non ci crederete mai, ma Faber, soprannominato così dall’amico e attore Paolo Villaggio per via della sua passione per l’omonima marca di pastelli, era uno che al liceo con le parole non è mai andato così d’accordo. O meglio, a detta del suo professore di letteratura, non è mai stato in grado di finire un tema. “Uno strano”, che con le parole è riuscito a farci a botte e poi a ricucirci i tagli.
“In direzione ostinata e contraria”. Dopo un primo approccio burrascoso alla musica per via dei genitori che lo costrinsero a suonare il violino, Fabrizio scoprirà il Jazz, “la musica della ribellione” per dirla alla Kerouac. Ed è proprio questa sua influenza e vena artistica che lo porterà a vivere un periodo di eccessi lontano dall’alto rango sociale della sua famiglia, viaggiando e frequentando persone a cui suo padre non avrebbe mai rivolto parola.
Max Striner, filosofo tedesco e George Brassens, cantautore francese faranno il resto, portandolo a formarsi e a credere definitivamente e fermamente nell’idea di anarchia, quella che l’accompagnerà lungo tutto il percorso artistico.
Esordisce nel 1966 con il suo primo album “Tutto Fabrizio De André”, contenente la fortunata “La canzone di Marinella”, reinterpretata poi dalla tigre di Cremona, Mina!
Gli anni successivi sono un tripudio di creatività, nascono lavori come “Tutti morimmo a stento”: un disco che parla di morte psicologica, mentale, quella morte che ogni uomo è costretto a subire almeno una volta nella vita per poi rinascere più forti, quella morte che Faber prova quando l’amico d’infanzia Luigi Tenco si toglie la vita per ribellarsi al sistema Sanremo.
Continua la sua strada realizzando i primi concept album uno su tutti: “La buona novella” del 1970: un disco che interpreta il pensiero cristiano sulla base di alcuni vangeli apocrifi, sottolineando l’aspetto umano e filosofico di Gesù, “il più grande rivoluzionario della storia”, come lo ha lui stesso definito.
In seguito ad un periodo di crisi professionale e personale incontra Dori Ghezzi, di cui si innamorerà follemente.Con lei vivrà momenti felici, che lo aiuteranno a superare tante paure, come quella del palcoscenico, ma anche l’esperienza più forte della sua vita: il rapimento da parte degli “anonimi sequestri” sardi che paradossalmente lo avvicinerà ancora di più alla Sardegna e a questo popolo, tanto da dedicargli un album “L’Indiano”.
Accusato di conoscere uno dei sospettati della strage di Piazza Fontana, De André viene tenuto, per circa 10 anni, sotto controllo costante dai servizi segreti italiani, perché ritenuto vicino ad ambienti anarchici pericolosi, ma quello che la polizia non sa è che basterebbe ascoltare le sue canzoni per capire le sue idee e le denunce contro terrorismo e mafia, Don Raffaè è solo un esempio della vastità di tematiche forti e mai banali a cui ci abitua il cantautore.
De André è un ribelle e osa parlare di omosessualità, di aborto, di divorzio, in un’epoca in cui parlare di quello significava per forza di cose mettersi nei guai, ma lui imperterrito continua, parla, denuncia, fedele prima ancora che al suo pubblico, alle sue rivoluzioni interiori.
Ad un certo punto però della sua carriera si accorge che l’italiano non basta per esprimersi, per stare con gli oppressi e con i disperati, inizia così a sperimentare e a scrivere in dialetto: “Creuza de ma” è l’album esempio di questo, cantato in genovese, rappresenta l’avvicinamento di Faber alla World Music e alle minoranze linguistiche.
La sua carriera resta un susseguirsi di sperimentazioni, scrittura creativa e tante tante idee: anche la morte non è riuscito a scalfirlo e a fargli dimenticare la sua “signora libertà, signorina anarchia” come ha più volte urlato dai live fiero abbracciando la sua chitarra. Quella che inizia dove finiscono le sue dita.
Ci lascia nel 1999 e decide che anche la morte dev’essere vissuta diversamente, “in direzione ostinata e contraria”: si fa cremare e fa lanciare le sue ceneri nel Mar Ligure, il mare della Genova che lo ha visto crescere e ribellarsi. Il mare, la metafora della sua vita. Le onde, rumorose custodi della sua immensa poesia.
“In direzione ostinata e contraria” come Fabrizio De André. Ascolto troppi dischi, vado a molti concerti e riverso le mie sensazioni su fogli Word scritti in Helvetica. La mia musica è sempre lì: tra i miei abissi e le mie montagne, pronta ad accogliermi come un vinile di Chet Baker. Faccio liste che lascio sparse in giro per casa, perché mi aiutano a mettere in ordine i pensieri, le idee e i film che devo assolutamente vedere prima di morire.
Mi piacciono: la politica che mi fa sentire viva, le storie dei matti e le storie folli, i luoghi abbandonati, Kurt Cobain, la violenza sul grande schermo, i tatuaggi, i nei, il mare d’inverno, l’Islanda e l’Africa, il numero 7 che mi ricorda che ci si può dedicare una vita intera alle passioni, Peaky Blinders e Vikings, la mia Albania, perdermi tra le Chiese e i vicoli di Napoli, l’orgoglio che ci metto nel dire che sono del Sud, il giradischi che ho comprato lavorando per qualche mese ad Amnesty International e la mia (ancora piccola) collezione di vinili.